Testimonianza sul lavoro del Polimabulatorio Thuya Tornare a vivere o Sopravvivere? Questo era quello che mi passava per la mente esattamente un anno fa, sdraiata nel letto, senza forze, con il respiro corto, mentre cercavo di fare i programmi per starle dietro. In quei momenti eravamo solo io e lei. Forse quelli erano i momenti, più di ogni altro, in cui mi rendevo conto che quella solitudine non mi avrebbe portato a niente. Quindi? Perché non cambiare? Non era così facile, a me piaceva stare con lei, mi sembrava la mia migliore amica, l’unica che faceva uscire la mia vera bellezza, ma in realtà mi stava riducendo a un semplice corpicino senza più vere emozioni, o magari in certi momenti anche troppe, era un continuo di tutto o niente. Forse cercavo di tenere tutte le emozioni per quando ero con gli altri, perché mi vergognavo di lei, volevo sempre mascherarla, quindi a casa rimanevo vuota. Ma a quel punto non è che fosse più di tanto mascherabile, perché ormai quello che contava era semplicemente ridurre tutto al minimo, tutto “all’osso”.

Ma perché parlare di lei solamente nella sua faccia per me “migliore”? Lei si presenta in tanti modi, in diverse sfaccettature, con me infatti è cambiata molto, e parlare di lei solo del momento più soddisfacente significherebbe ancora una volta dargliela vinta, sarebbe sminuire la sua grandezza, che rimane uguale, indipendentemente dal fatto che gli altri la possano percepire o meno. Forse è anche più cattiva quando si nasconde meglio, perché ti fa sentire meno potente, una nullità, non che queste cose se le risparmi nelle altre occasioni, ma se tu non riesci a seguire la sua volontà non vali niente, non puoi neanche essere degna di essere sua amica. A me è successo proprio così: per un anno e mezzo lei è sempre stata più una nemica che un’amica, perché non riuscivo sempre a soddisfarla, ero troppo “golosa” per lei. Non riuscivo a resistere agli impulsi, ormai ero destinata a tenerla dentro perché nessuno l’avrebbe mai vista per come realmente lei era, sarebbe sempre sembrata di meno perché, quando un problema non è visibile, il problema non esiste. Però in tutto quel tempo mi sono staccata dalla realtà e ho iniziato a vivere come voleva lei. Per me era ormai la normalità, era così bello avere quello stile di vita, non mi riuscivo più a immaginare la mia vita senza di lei. Poi, pian piano, ho deciso che era arrivato il momento di farla diventare davvero la mia migliore amica e arrivare finalmente dove lei mi aveva sempre assicurato che io sarei stata la migliore. E così feci, giorno dopo giorno: iniziavano le prime vere soddisfazioni, quelle precedenti erano nulla in confronto, ma il problema è che non puoi mai mettere un punto di fine. Vedendo che davvero potevo arrivare dove voleva lei, c’era sempre un nuovo obiettivo.

E poi, cosa facevo quando l’avevo raggiunto? Continuavo, ancora e ancora, perché quella sensazione di potere, quella soddisfazione, quella felicità di prima mattina quando scoprivo che i miei sforzi non erano valsi a nulla, erano qualcosa di incomparabile con qualsiasi felicità al mondo. Nulla mai nei due anni e mezzo precedenti mi aveva fatto sentire così, finalmente ero contenta. Pensavo che nessuno mai mi avrebbe dato una tale felicità e questo era il motivo principale che mi spingeva a stare con lei: “quando arriverai lì, Erica, potremo tornare a mangiare”. Io ci credevo a questo, ero convinta che quando sarei arrivata a “quel punto” avrei potuto concedermi qualcosa di più, ma alla fine trovavamo sempre qualcosa in me che doveva essere corretto, quindi aggiungevamo una nuova meta, fino ad arrivare ad un momento in cui il cibo era diventato il mio peggior nemico, più di prima: ero talmente stremata che non riuscivo ad alzarmi dalla sedia senza vedere le stelle, ma quando solo mangiavo un pezzo di carota per avere un po’ di forze, le sprecavo per piangere incessantemente nel letto, e quindi rincominciava tutto. E i miei genitori? Loro poverini non sapevano più cosa fare. Speravano solamente nelle rassicurazioni dei medici, che ormai gli avevano detto di attivarsi per le visite del ricovero. Anche lì io non mi sentivo abbastanza, non ero ancora abbastanza malata, dovevo ancora scendere, non avevo paura di perdere tutto, perché ormai mi sembrava di non avere più niente. A quel punto stava arrivando l’estate, perciò era arrivato il momento perfetto per mettermi alla prova con dei nuovi pantaloncini. Ricordo ancora quel giorno nel camerino della Levi’s: la commessa si rese conto che neanche la taglia più piccola andava bene per me e quindi mi guardava malissimo, non nego che io mi sentivo in soggezione, ma quel suo sguardo quasi spaventato mi fece capire che lei mi aveva notato per la mia magrezza.

Provavo un po’ di vergogna, ma la felicità era talmente alta in quel momento che le altre emozioni non erano più importanti. Questa sua parte così bella era come se mi rigenerasse, cancellava tutto il male che lei negli altri momenti mi faceva. Ma allora perché non continuare se mi faceva stare così bene? Purtroppo, quelle erano delle felicità limitate, mi facevano stare al settimo cielo, ma solo per quanto voleva lei. Il resto del tempo ero sola, non ero più me stessa, non avevo più una vita vera. Ormai anche i miei genitori avevano scoperto le mie abitudini, non potevo più nascondermi, io cercavo sempre di mentire, ma non potevo più fare niente, non riuscivo più a mantenere i miei programmi, lei mi faceva sentire ancora peggio, ero diventata insulsa perché non rispettavo più gli obiettivi. Però, pian piano, era iniziato a cambiare qualcosa nella mia vita: avevo iniziato a uscire e avevo scoperto che potevano esserci anche altre felicità, oltre a lei. Mi trovai in tante situazioni difficili, in cui avrei dovuto scegliere tra me o lei. Molte volte lei ha avuto la meglio, ma ormai non riuscivo più a conciliare le due cose; quindi, è arrivato il giorno in cui ho dovuto fare una scelta importante, una promessa che mi ha cambiato la vita: “il 20 luglio inizio il percorso per guarire dal disturbo alimentare”, ci eravamo detti. Nessuno ci credeva tanto in quella promessa e, del resto, non li biasimavo perché non facevo niente per fargli pensare il contrario, ma io invece ci credevo, ci credevo tanto. E così è stato, quel giorno ho fatto la prima visita seria, con un’attitudine completamente diversa, le altre visite per me erano come una perdita di tempo. Ma invece quel giorno c’era qualche cosa di diverso, io ero seria e avevo voglia di tornare a “Vivere”.

Non nego che dopo due ore ero già in camera in crisi nei miei pensieri, ma se non fosse stato così probabilmente non avrei dovuto fare nessun percorso. Di crisi ce ne sono state tante; tante volte ho pensato di tornare indietro, tante volte l’ho fatta vincere, mi sono fatta manipolare credendo di non meritare neanche più una vita normale, ma, nonostante ciò, ho sempre combattuto. Le sono andata contro anche quando l’unica cosa che avrei voluto fare sarebbe stata ritornare mano nella mano con lei. Ormai sono quasi 10 mesi che lotto duramente, lei è ancora con me, non mi ha ancora lasciata, ma ora io ho imparato a zittirla, so come gestirla e so come riconoscerla. Non nego che a volte non riesco ancora a sopraffarla, ma riesco a vedermi in una vita senza di lei. Che non si pensi che questo non mi spaventi, anzi, ho tanta paura di sentirmi vuota senza la mia “migliore amica”, ma ormai ho capito che so stare senza di lei e che posso stare senza di lei, che lei non mi fa stare bene, che lei non mi fa vivere e che nessuno meriterebbe di averla nella sua vita. Ma chi è questa lei? “Lei” è l’anoressia, lei è la bulimia, lei è tanto altro ancora ed è quella che cerca di portarti in un tunnel fino a farti vivere nel buio più totale, fin quando non arriva una scintilla, uno stimolo, un gesto che ti fa capire che lei non è niente mentre tu sei tutto.